Testi Critici

Caterina Limentani

Caterina Limentani

Si potrebbe dire senza esagerare che quasi tutti gli interventi critici sulle opere di Tobia Ravà hanno evocato in maniera più o meno scoperta il concetto o l’immagine del labirinto. Né la cosa sorprende. Anche a un’occhiata superficiale tutti i suoi lavori rivelano d’esser tessuti dalla cifra coerentissima di un continuo, aggrovigliato, ritornante intreccio segnico, quasi un basso ostinato che costituisce una trama tenace su cui si rialzano secondo ritmi imprevedibili le stravaganze dei timbri cromatici, le epifanie iconiche, gli inganni prospettici. In questo labirinto del segno, che infaticabilmente percorre in ogni suo senso la superficie dipinta secondo un intento in apparenza affine all’horror vacui, concetto pure esso largamente impiegato dalla critica per questo artista, si è peraltro sempre intuito un principio sviante, straniante, irritante proprio in quanto eversivo delle rassicuranti certezze dei percorsi della razionalità. Si è anche creduto, talora, che la natura stessa di questo dedalico tracciato fosse affine all’ambiguità metamorfico-zoomorfa dei suoi Orienti occidentali, per quanto di sorpreso, e inatteso potessero far affiorare al livello del linguaggio della veglia delle inconfessate profondità dell’inconscio, operazione denunciata del resto dall’elegante ossimoro del titolo. Tutte queste osservazioni sono certo pertinenti, ma non è secondo questi filoni interpretativi che intendo parlare di labirinto a proposito della produzione di Ravà, e soprattutto di quella recente.
Il punto di partenza deve essere la scelta di fondo, la cultura di fondo di questo giovane artista. Il quale legge molto, sa molto, pensa molto e se dipingesse di meno, se cioè non si confrontasse infaticabilmente, come fa, con i mezzi propri del fare pittorico, si potrebbe dire che legge troppo, sa troppo, pensa troppo.
La cultura, dunque. Occorre tenere presente se si vuole tentare di penetrare oltre la cortina lussuosa e frastornante delle sue superfici dipinte, che la sua formazione e la sua vocazione culturale deviano dal percorso rettilineo e soleggiato del razionalismo propriamente occidentale. Quell’itinerario di fiducia nell’accessibilità del mondo, nell’individuazione del senso, che ha creato il mito del cosmos della conoscenza opposto al caos della non-conoscenza, sprezzando, come giustamente avverte Blumenberg, i segnali contrari incontrati per strada. Nel Fedone, ad esempio, guardare alla natura non significa possederne il senso, ma restare abbagliati dai fenomeni: per costruire certezze occorre allora dedicarsi alle idee, agli oggetti del pensiero. Per conoscere e costruire il senso bisogna allora affidarsi all’infinita potenza combinatoria dell’alfabeto.
Il percorso trionfante della pretesa ordinatrice del cosmo per raggiungere i suoi scopi dovette dunque separarsi dalle molte suggestioni di altri mondi, in cui l’invisibile coincide necessariamente con l’indicibile.
Fra i miti della cultura occidentale che sono relitto di tali intenzionali scarti primeggia proprio il labirinto, il luogo dello smarrimento e dell’inganno, da cui ci si riscatta solo affidandosi al filo di Arianna, filo dell’amore e ancora una volta della conoscenza. Ma è soprattutto importante capire che il compito del labirinto e di interdire la visione, o meglio di reprimere la facoltà visiva del visitatore, limitandola a piccole porzioni dello stesso manufatto, in apparenza assolutamente identiche una all’altra: di qui il meccanismo dell’inganno. Un altro mito per qualche verso tangente al labirinto, almeno per la sua etimologia che lo dichiara luogo cintato, e quello del paradiso, che non a caso e pur esso luogo dell’interdizione della conoscenza. Cosa ancora piu importante, nella dizione iranica paraidaeza poi passata nell’ebraico pardes, diviene metafora dei saperi misterici, almeno secondo la lettura incrociata detta gematrià che sembra in qualche modo rispecchiata nella multidirezionalita delle letture possibili dei dipinti di cui ci stiamo occupando. Ecco come attraverso la coincidenza fra l’invisibile e l’indicibile si può certificare l’illusorieta delle serene certezze del cosmos occidentale, della premiata ricerca del senso. Soprattutto in un’epoca come la nostra, di transizione al terzo millennio, in cui la perdita del senso e divenuta, nel pubblico come nel privato, quasi la norma, sembra dirci Tobia Ravà, si può davvero pretendere che il linguaggio sia la chiave di lettura del mondo? Ora capiamo meglio l’ironia della trama labirintica di questo artista.
La critica ha spesso sottolineato nelle opere di Ravà le bizzarre rivisitazioni della cultura bizantina o la riproposizione del graffitismo nordamericano. Molti, conoscendo gli studi universitari dell’autore e orientati dai titoli allo stesso tempo eloquenti e svianti di queste opere, hanno notato quelle che sembrano cerebrali e gratuite esercitazioni semiotiche. L’insieme di questi fenomeni, a mio giudizio, si riconduce da un lato alle inquietudini antichissime dell’oriente misterico e della cabalà, dall’altro all’ironia di chi e capace oggi di mettere in discussione ogni momento il suo essere al mondo. Il tema del viaggio, ad esempio, più esplicitamente denotato nelle opere recenti, ma connotazione pressoché costante nella produzione di Ravà non solo si riconduce facilmente ai contenuti della cultura a cui accennavo, ma è continuamente verificabile nella forma e sostanza dell’espressione di questa pittura, che è all’evidenza sostenuta da un flusso segnico e cromatico ininterrotto, vitalissimo, nel contempo fascinoso rivelatore di strade, ponti, guadi, acque, cieli, Venezia come crocevia del mondo, tutti percorribili dalla nostra ansia incessante.
Il tema del limite, d’altra parte, individuabile nella maniacale chiusura cellulare che ha spesso indirizzato verso l’identificazione di un horror va- cui, e che credo invece ricordo della preziosa tecnica del cloisonné, inventa nelle ultime opere un continuo gioco di contraddizioni fra la cornice e la sua funzione, negata dall’estendersi della continuità pittorica oltre il confine prefissato. Allo stesso modo, talora, riprendendo un sofisma caro a Escher, ha ingarbugliato la norma della rappresentazione oppure ha intrecciato percorsi impossibili mediante illogiche trasparenze. Ancor più raffinato e perverso l’intento di spiazzare le attese dell’osservatore trattando come superfici piatte e continue l’articolazione dei piani, l’interno e la tridimensionalità dei suoi mobili dipinti, fino a che i calchi bronzei di rospi e alligatori, dipinti dello stesso identico colore o texture della loro porzione di sfondo, vengono inghiottiti dal labirinto del senso.
Caterina Limentani Virdi

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