Testi Critici

Omar Calabrese

Omar Calabrese

Il lavoro di un artista è sempre un po’ schizofrenico. Da una parte, infatti, e interessato alla rappresentazione: cioè alle “figure” che crea in quanto aderenti o non aderenti al mondo (realismo vs astrazione). Ma dall’altra è interessato soprattutto alla maniera del rappresentare. cioè alle tecniche, alla materia, alle strutture della propria opera. In questo senso, dunque, ogni artista è sempre un po’ figurativo (cioè più o meno memore degli stimoli naturali che lo inducono a creare) e un po’ astratto (cioè teso alla cura della superficie forale dei propri testi visivi).
Questo e quanto accade anche a Tobia Ravà, che è riuscito peraltro a trovare un modo assai originale per esprimere il proprio doppio interesse per le figure e per la loro composizione astratta. Nei suoi quadri, infatti, ritroviamo. assai rielaborate, molte immagini “classiche” dell’arte, o addirittura immagini sacralizzate dalle culture più antiche e tradizionali: città sante, icone, monumenti, manoscritti, incunaboli. Ma nello tempo queste tracce di rappresentazione rinviano a problematiche concernenti la rappresentazione. L’immaginario ebraico o cristiano o greco-romano a cui egli attinge ha infatti sempre avuto a che fare con una teoria dell’immagine (e della sua negazione). Ravà è del resto un esperto in questa materia, avendo svolto , all’università una tesi di laurea sull’interdetto visivo. Il richiamo alla teoria della figuratività induce cosi 1’artista a compiere un gesto plastico coerente con quel che “si sa” dell’immagine. Da un lato egli la valorizza con un forte sistema cromatico, ma dall’altro la nasconde, ingabbiandola in una rete di linee e ulteriori colori che appiattiscono sulla superficie, la fanno navigare nello spazio pittorico.
Il risultato è che ci troviamo dinanzi ad una continua, metamorfosi spaziale delle figure, che funziona un po’ in questo modo:
a. di base, esiste una qualche figura appartenente ad una iconografia mitica o mistica;
b. essa viene collocata in uno spazio astratto, in cui non si puo riconoscere la profondità del campo;
c. contemporaneamente, tutto lo spazio disponibile viene riempito di linee e colori, cosicché si perde ogni differenza fra figura e sfondo;
d. la composizione viene posta in risalto accentuando il peso superficiale delle linee e delle campiture di colore, e facendo dominare cosi il piano del quadro rispetto alla terza dimensione illusoria.
A questo punto, ecco che le figure iniziali cominciano a fluttuare nello spazio. Fissando 1’attenzione, le si possono conoscere come figure del mondo. Focalizzando lo sguardo sul piano, le figure diventano invece ritagli figurativi, quasi incollati sul composto astratto globale.
“Patchwork berlinese” e in questo senso forse il dipinto più emblematico della serie (ancorché quello più “prosastico” a causa dell’evidente occasione di cronaca che lo ha generato). Ritroviamo infatti il simbolo della monumentalità della divisione, fra le due Germanie perfettamente riprodotto. E pero 1’intervento dei campi cromatici definiti dalle linee del piano lo tramuta in una sorta di tessuto ornamentale, di puzzle grafico e coreografico. Quasi che il risultato che vediamo fosse soltanto il termine di un gioco di collocazione di pezzi dal formato e dal taglio puramente convenzionale.
Lo stesso accade, ad esempio, nella coppia (a mio parere assai poetica) costituita da “Miraggio sefardita” e da “II doppio del borgo di dietro”. Qui, il motivo figurativo e costituito dalla silhouette di una città orientaleggiante, un po’ come nell’arte del vicino Est o nella pittura veneziana del Rinascimento, influenzata dai Turchi. I colori del profilo di per sé rendono la silhouette indistinta (un “miraggio”, appunto). Ma poi questa ombra verticale viene mossa, spostata per mezzo di proiezioni di un ideale cubo prospettico, e infine racchiusa da una gabbia di linee colorate. L’insistenza sulle linee fa sì, infine che il miraggio si comporti come tale: appaia e sparisca dal nulla all’occhio dello spettatore.
Proseguendo nell’esemplificazione, possiamo osservare anche qualche effetto di paradosso che la geometrizzazione e la aromatizzazione insieme producono nelle opere di Ravà. Se prendiamo “Canale ambiguo”, possiamo osservare come il ponticello con il relativo canale innanzitutto perdono di realismo mediante l’interpretazione dei colori. Poi, l’autonomia stessa dei colori fa sì che i profili altrimenti motivati delle cose comincino una loro espansione autonoma: l’acqua del canale si fa macchia larga sulla destra del quadro, mentre altre campiture trasformano l’immagine in una decorazione neocubista.

C’e un quadro del 1986 che porta un titolo molto azzeccato per capire la poetica che abbiamo tentato di descrivere. Il titolo è “Fenomenologia della complessità”. A significare, probabilmente che l’artista ha capito che il mondo della rappresentazione è un mondo a complessità altissima. Non lo si può interpretare riducendo tale complessità: si può al massimo provare a ricreare (non riprodurre) i fenomeni del mondo. E nella scoperta dell’innumerevole rete di relazioni che essi intrattengono con noi, godere del piacere stesso della complessità. Il caos della rappresentazione, che in molte civiltà è stato uno spauracchi per la ragione diventa adesso un oggetto estetico. A maggior ragione, Ravà aggiunge complessità alla complessità: con un nuovo “horror vacui” che non è affatto ossessivo, ma gradevole, decorativo. La “muraglia di pittura” che fa scomparire le forme riconoscibili nell’opera di Frenhofer (in “Il capolavoro sconosciuto” di Balzac) non è fonte di turbamento o di scacco. È la matrice di una pittura fantastica, illustrativa, onirica che persegue il piacere dell’occhio ingannandolo continuamente nelle sue certezze concettuali
Omar Calabrese

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